giovedì 3 settembre 2009

Insegnare al "pianeta" carcere. La testimonianza di una maestra. (Laura Bonasera)


Un cestino. Con tanti fiori colorati, sbocciati. Lo mostra con cura, come fosse di cristallo. Ma è fatto di sapone. Essiccato. Ora non può più scivolare tra le mani, il sapone. Quella materia plasmata, reinventata, rinata con un altro scopo è un regalo in cui convergono gratitudine, stima. “Me l’hanno regalato i miei alunni” – racconta – “L’hanno realizzato loro”. Lei è una maestra delle elementari. Ma la sua scuola si trova in un pianeta alieno, parallelo: al “pianeta carcere”, dove tutto è fuori dall’ordinario. Da 22 anni, ogni giorno per la maestra del primo circolo De Amicis con incarico speciale alla casa circondariale di Enna, è un pezzo di sapone, una scaglia che non può scivolarle addosso ma che modella nella sua forma migliore per poi essiccarlo, custodirlo immutabile nella sua vita. Al di là di quelle grosse mura, insegna italiano in una classe che è un vero melting pot, un crogiolo di culture e lingue diverse. Un’antologia di storie di vita, tutte diverse, penetranti. Così, questa “piccola” donna, esile e minuta ma dalla grande vitalità, vive la sua professione: “Entro da insegnante e divento allieva della maestra Vita”. Anzi, la sua missione: “E’ un segno il fatto che io sia ancora lì, a lavorare”. Aveva appena 21 anni, quando sfornata fresca fresca dal corso di specializzazione per l’insegnamento in carcere, vi entrò. Nove cancelli per arrivare al maschile. Tutti da oltrepassare tra il frastuono del ferro e delle chiavi di un agente. “Un percorso interminabile, per me terribile, sembrava infinito”. Aveva paura. Non sapeva chi avrebbe avuto davanti. Poi l’arrivo in due cellette adibite a scuola: 2 metri per 2, nessun arredo scolastico. La porta della cella chiusa, anche se senza blindo. “Ero in cella anch’io. Chiusa”. Per uscire, finita la lezione, suonò un campanello perché un agente le aprisse la cella. Questo il suo primo giorno di scuola. “Immaginavo di trovare gente abbruttita, come si vede nei film, e invece trovai un diciannovenne catanese, analfabeta. Un ragazzo di due anni meno di me. Mi raccontò che se non andava a rubare auto il padre lo avrebbe picchiato. Per questo non era mai andato a scuola. Conosceva soltanto le lettere delle targhe di Catania e delle forze dell’ordine per orientarsi nel mondo. Tutte le altre auto con targa sconosciuta erano possibili bersagli. Per me fu uno shock. Io che la scuola l’avevo sempre vissuta come un valore, anche in famiglia. I miei erano insegnanti”. Si rimboccò le maniche. Doveva interessarlo, in qualche modo quel ragazzo. Dargli una chance. “Iniziai dalle lettere e dalle sillabe delle targhe d’auto. Imparò così a leggere e scrivere. E fu il mio primo successo – afferma con orgoglio - Capii subito che se volevo ottenere dei risultati, dovevo iniziare dal vissuto. Da loro”. Oggi le cose sono cambiate.“C’è un’aula arredata situata fuori dalle sezioni. Entro ed esco dal carcere come fosse casa mia, è una grande famiglia. Ma è rimasta una cosa, sempre la stessa ogni giorno: appena esco tiro un sospiro. Ho bisogno di sentire l’aria che mi riempie i polmoni per liberarmi da un senso di oppressione”. Ma anche lì dentro c’è l’umanità, l’arte d’arrangiarsi, regole, codici d’onore come quella che vede il gentil sesso venerato come una Beatrice dantesca. Poi le loro domande: “Ma fuori cosa pensano di noi? Ma lei maestra, glielo dice che siamo normali?”

(articolo pubblicato su www. siciliaoggi.net)

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